La reazione di ieri dei mercati alla notizia del nuovo calo dell’inflazione americana conferma, una volta di più, il desiderio di lasciarsi alle spalle un periodo in cui la precarietà del presente e l’incertezza del futuro hanno condizionato (ma non ne siamo ancora usciti) la nostra quotidianità. Una fase che dura, oramai, da 4 anni, da quando, nel dicembre 2019, sono emerse le prime voci su un nuovo virus che si stava espandendo a grande velocità in Cina.
Cosa è successo dopo è noto a tutti: una sequenza di avvenimenti che hanno messo a repentaglio non solo il nostro benessere, con una crisi economica in alcuni momenti drammatica, ma anche un equilibrio globale mai apparso tanto fragile e vulnerabile. Cigni neri (gli eventi imprevisti e imprevedibili che possono “scardinare” la nostra vita) e crisi-geopolitiche (frutto di tensioni latenti e tenute a fatica sotto controllo sino alla loro esplosione), nuovi paradigmi economico-finanziari e la conseguente necessità di drastici e non più rinviabili interventi di politica monetaria per “ristabilire l’ordine economico” hanno prodotto cambiamenti nei comportamenti dei singoli e nuove regole di vita, in molti casi andando a peggiorare le condizioni di vita.
C’è, quindi, voglia di “normalità” e di tornare a guardare con fiducia al futuro.
Vincere l’inflazione, oltre ad avere un evidente impatto sulle “tasche dei cittadini”, ha una forte valenza emotiva: sapere che il potere di acquisto, da un mese all’altro, non viene “bruciato” (e che, per fare l’esempio più banale, la rata del mutuo non subirà una nuova impennata…) non può che avere un effetto positivo sulla vita delle persone.
Il significato del rimbalzo dei mercati nella giornata di ieri (che prosegue questa mattina sulle piazze asiatiche) in fondo è questo: i mercati finanziari sono senza dubbio il “termometro” dello stato dell’economia e, ancor di più delle prospettive che ci attendono. Di fatto, quindi, indicano una “traiettoria”: nel momento in cui punta verso l’alto, la rappresentazione che danno è che “il peggio” è alle spalle. O che, per lo meno, quello che ci attende probabilmente non è così pesante come qualcuno poteva pensare, lasciando spazio a stime che prevedono sì un rallentamento economico, ma non così grave (soft landing), con una crescita economica comunque positiva, che allontana la recessione, posti di lavoro salvaguardati, tassi che rimangono invariati, anticipando che il momento della discesa, per quanto non immediato, non è più un miraggio, utili aziendali che, come ci conferma il periodico report di Janus Henderson, non solo “tengono”, ma addirittura, seppur di poco, anche nel 2023 cresceranno (+ 4,4% su scala globale, con dividendi stimati nell’anno a $ 1.630 MD), con una qualità della crescita migliore di quanto potesse sembrare solo qualche mese fa.
Il calo dell’inflazione americana, scesa oltre le previsioni e passata al 3,2% (vso attese del 3,3%, con quella core, che non tiene conto dei prezzi più volatili, dati dagli alimentari e dall’energia, scesa al 4% vs attese del 4,1%), ha quindi un forte significato: per quanto il traguardo dell’obiettivo target del 2% non sia ancora dietro l’angolo, guadagna sempre più terreno l’idea che la FED non ricorrerà, nella prossima riunione del proprio Comitato Direttivo, ad un nuovo aumento dei tassi, confermando l’attuale 5,25/5,50%. Non solo: comincia a farsi largo la sensazione che anche l’inizio della “discesa”, che, per i mercati USA, era prevista per giugno 24, possa essere anticipato a maggio. In tutto, per il 2024, si pensa che potremmo avere 4 tagli da 25bp ognuno: quindi, a fine 2024, i tassi americani potrebbero attestarsi al 4,25/4,50%. Piuttosto chiara la chiave di lettura da parte del mercato obbligazionario americano, con i rendimenti dei titoli a 2 anni scesi in pochissimo tempo di 20bp (dal 5,04% al 4,84%), mentre il decennale è passato al 4,5%. Sorte analoga per il bund tedesco, scivolato al 2,6% (solo 1 mese fa era intorno al 3%).
Insomma, gli investitori hanno “fame” di indizi positivi e ogni notizia, in questo senso, diventa motivo di fiducia, con il ritorno al “risk on” e l’obiettivo di prepararsi ad una nuova fase di mercato, iniziando a “costruire” portafogli più sensibilia tassi che diminuiscono.
Il “tripudio” americano di ieri sera (Nasdaq + 2,13%, Dow Jones + 1,43%, S&P 500 + 1,91%) contagia, questa mattina, gli indici asiatici.
A Tokyo il Nikkei si appresta a chiudere a + 2,52%, superato dall’Hang Seng di Hong Kong, che, con un + 3,67%, realizza, per il momento, forse la miglior seduta dell’anno. Più cauta Shanghai (+ 0,55%), nonostante la nuova massiccia iniezione di liquidità da parte della Banca Centrale. Da notare che sia la produzione industriale che le vendite al dettaglio nel mese di ottobre sono aumentate.
In forte rialzo anche, a Seul, l’indice Kospi (+ 2,1%).
Futures ancora in rialzo ovunque, anche se in maniera più “sobria” (+ 0,20/0,30%).
Stabile il petrolio, con il WTI a $ 78,48 (+ 0,17%).
Gas naturale Usa $ 3,109 (-0,13%).
Risale l’oro, che si porta a $ 1.974,30 (+ 0,31% questa mattina).
Spread a 180 bp, sui minimi da 2 mesi, con il BTP a 4,39%.
Bund 2,60% dal 2,71%.
Treasury 4,43%, livello più basso da settembre.
Forte rialzo dell’€, con l’€/$ a 1,087.
Ritraccia il bitcoin, sceso a $ 35.631, “schiacciato” dalla forza degli indici azionari.
Ps: la ristorazione, come noto, è uno dei nostri “fiori all’occhiello”. Ieri sono state assegnate le nuove Stelle Michelin: in tutto, in Italia, oramai sono 395 le stelle assegnate. Oltre ai “soliti noti” (come Norbert Niederrkofler, che, dopo la chiusura del St. Hubertus di S. Cassiano ha aperto, sempre in Trentino, l’Atelier Moessmer a Brunico) giovani chef crescono, come Fabrizio Mellino, che, a soli 32 anni, porta il “Quattro passi” di Nerano, un paese in provincia di Napoli, a guadagnarsi le 3 stelle. Per non parlare dei diversi nuovi 2 stelle e degli ancor di più con 1 stella.